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Novara, Teatro Coccia, 24 settembre 2021


Anche il Teatro Coccia di Novara ha aperto i battenti della sua Stagione, ancora con pubblico a ranghi ridotti, in attesa che molto presto le rigide maglie anti-covid siano ridotte, e i luoghi di cultura restituiti alla piena capienza o quasi, almeno per i primi tempi.

Il via si è avuto con un Concerto, occorre dirlo invero eccellente, dell’OSN Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI di Torino, diretta da Antonino Fogliani. Per la verità sul podio era prevista la presenza di Tianyi Lu, giovane direttrice vincitrice del Premio Cantelli 2020, costretta a rinunciare per un’indisposizione. Il Maestro Fogliani faceva parte della Giuria che le aveva attribuito il prestigioso riconoscimento.

Larga parte della serata è stata dedicata alla musica di Felix Mendelssohn: si è iniziato con l’Ouverture Le Ebridi, composta dal musicista tedesco nel 1830 sull’onda della suggestione di un viaggio compiuto nell’arcipelago scozzese. Fogliani ha cesellato con attenzione e grandissimo gusto il susseguirsi di stati d’animo, quasi un pannello di acquerelli di clima umbratilmente romantico in malinconica sospensione tra assenza e attesa, per abbandonarsi, nella seconda parte del pezzo, a ricreare con dolcissima tensione il rollio del mare, amico e sfuggente come la corrente, in questo seguito da una compagine orchestrale in grande spolvero.

La seconda parte del programma era interamente dedicata alla Sinfonia numero 4, detta Italiana, eseguita per la prima volta nel 1833 e rivista da Mendelssohn l’anno seguente. Fogliani ha sfogliato le pagine della scrittura medelssohniana con luminosa capacità analitica non disgiunta da un trepidante abbandono. Il celeberrimo primo movimento ha brillato a dovere, la solennità del secondo è stata resa con pacata compostezza, e il classico, apollineo equilibrio del terzo ha aperto le porte alla danzante conclusione del quarto. Una lettura coinvolgente e di notevolissimo livello.

La parte centrale del concerto era occupata dall’affascinante Concerto per pianoforte numero 5, conosciuto come Egiziano, di Camille Saint-Saëns, eseguito per la prima volta nel 1846. Composto dall’autore (e quanto dovrebbe essere rivalutato e giustamente considerato nel suo valore Sain-Saëns), durante un viaggio a Luxor, si avvantaggia delle seduzioni orientali che sempre suggestionarono il musicista – dobbiamo ricordare la sua opera più celebre, Samson et Dalila? -; ascoltiamo così richiami musicali mediorientali, ispanici, sino all’estremo oriente; le notti del Nilo barbagliano misteriose e impalpabili tra le note delle tre sezioni del Concerto, con un risultato quasi pre-impressionista d’insinuante attrazione. Fogliani e l’OSN hanno dipinto l’atmosfera con palpitante partecipazione ma fondamentale è stato certamente l’apporto della bravissima pianista ventisettenne olandese Gile Bae, vincitrice del Primo Premio alla Princess Christina Competition nei Paesi Bassi e del Primo Premio alla Steinway & Sons International Piano Competition. Impeccabile e ammirevole perizia tecnica, efficacissimo sbalzo interpretativo in un continuo, eloquente dialogo con la parte orchestrale, hanno siglato una prova davvero maiuscola, coronata da un caldissimo successo personale, che è peraltro arriso a tutti gli artefici della davvero bella serata, una di quelle in cui, attraverso la musica, si può tornare di nuovo a sperare.

Nicola Salmoiraghi

 

 

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NOVARA: prima e settima sinfonia di Beethoven, 19 febbraio 2019 http://classica.iteatridellest.com/2019/02/21/novara-prima-e-settima-sinfonia-di-beethoven-19-febbraio-2019/ http://classica.iteatridellest.com/2019/02/21/novara-prima-e-settima-sinfonia-di-beethoven-19-febbraio-2019/#respond Thu, 21 Feb 2019 10:44:29 +0000 http://classica.iteatridellest.com/?p=351 «Ecco una sonata che darà filo da torcere ai pianisti, quando la eseguiranno tra cinquanta anni», poche parole che racchiudono tutta l’amarezza di Beethoven nel consegnare al suo editore, siamo nel 1819, una sonata che mai avrà il piacere di ascoltare. “Che cos’è il genio?”, recita la voce fuori campo del Perozzi nell’indimenticabile capolavoro cinematografico di Monicelli, “È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”. E proprio la fantasia e la

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«Ecco una sonata che darà filo da torcere ai pianisti, quando la eseguiranno tra cinquanta anni», poche parole che racchiudono tutta l’amarezza di Beethoven nel consegnare al suo editore, siamo nel 1819, una sonata che mai avrà il piacere di ascoltare. “Che cos’è il genio?”, recita la voce fuori campo del Perozzi nell’indimenticabile capolavoro cinematografico di Monicelli, “È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”. E proprio la fantasia e la velocità di esecuzione furono motivo di lamentazioni da parte degli esecutori contemporanei al grande genio di Beethoven. Ma il genio non è soltanto questo. Il genio è soprattutto trovarsi a vivere la propria esistenza con largo anticipo sui quei tempi che la vedrebbero quale ordinaria, o poco più. Ma tale fu il suo genio, o forse troppa la sua umiltà, da indurlo a pronosticare il periodo fin troppo breve di cinquanta anni, dopo i quali la sua musica sarebbe risultata tanto ordinaria da poter essere eseguita senza difficoltà alcuna. Di fatto, a distanza di duecento anni, in attesa che si desse inizio all’esecuzione della sua Prima e Settima sinfonia al Teatro Coccia di Novara, ho potuto intercettare i gesti e le parole di un giovanissimo e appassionato studente di musica che spiegava i virtuosismi richiesti da alcuni movimenti “innaturali” con l’archetto. Ma cosa c’è in Beethoven che non si può trovare in nessun altro compositore del suo tempo? Di certo egli segna il passaggio definitivo dalle leziosità del barocco all’impeto del romanticismo. Altrettanto certo è che questo non sarebbe bastato a fare la differenza. Occorre vi sia molto di più a che il Personaggio e la sua Musica entrino nel novero dei maggiori esponenti di tutti i tempi. Passino la stravaganza, la presunta misantropia, eccetera, eccetera… di fatto quel che dovrebbe catalizzare l’attenzione sono l’assoluta unicità delle sue vicissitudini ed il conseguente prodotto artistico. Personalmente quello che mi domando è se non fu proprio il suo più grave difetto a forgiare la sua grandezza: la sordità. Chi può dire se potendo ascoltare gli esecutori non si sarebbe arreso conformando le sue composizioni alle esigenze del proprio tempo, divenendo in tal modo uno solo tra i tanti. Beethoven vive la sua esistenza lontano dall’influenza dei “rumori” del suo tempo, e forse, a suo modo li descrive con la sua Musica, dove si possono udire chiari i suoni dei fermenti dell’illuminismo così come quelli delle cannonate delle armate francesi di Napoleone, e ancora la passione impetuosa e ardente, quasi oscena, dei suoi amori. Egli non ascolta nessun’altro che sé stesso, dapprima perché non può, poi dopo una lunga meditazione sul suicidio, è probabile che più non lo volesse. Chiuso ermeticamente nel suo universo esclusivo compie un’autentica trasmutazione delle personali gioie e amarezze in composizioni musicali fuori del tempo e senza tempo. Oggi Ludwig van Beethoven, già tanto amato e a fasi alterne bistrattato nel suo tempo, è comunemente riconosciuto tra i primissimi geni del genere umano, frequentemente e più o meno bene eseguito. “Più o meno bene” però non è quanto richiesto dal Maestro Matteo Beltrami, direttore musicale del Coccia di Novara, che per questa rappresentazione ha voluto che le porte dell’ingresso artistico si aprissero all’organico della blasonata orchestra de I Virtuosi Italiani. A presentare la serata il giornalista e scrittore Gianluigi Nuzzi, noto al pubblico televisivo non soltanto per la trasmissione Intoccabili in onda su La7 e per Quarto Grado in onda su Rete4, bensì per l’inchiesta sul Vaticano e la sua vicinanza al Papa emerito Benedetto XVI. Giusto appunto su questo argomento e sugli scandali relativi alla pedofilia, Nuzzi ha voluto richiamare l’attenzione del pubblico, invitandolo a tenere alta la guardia. Ratzinger nonché Benedetto XVI, che a suo dire, oggi passeggia tra i giardini vaticani, che cordialmente incontra le persone, e ama passare le giornate al pianoforte tra le note di Mozart e Beethoven, perché è nell’arte che l’uomo incontra il divino. Organico ridotto a 38 elementi (trai quali sole quattro donne… e si sente dire: “ma le quote rosa?”) di ottimi e concentratissimi orchestrali che danno il meglio di sé centrando in pieno l’obbiettivo pur trovandosi alle prese con due differenti opere nella stessa serata. Di fatto la Prima e la Settima presentano stili che vanno dal classicheggiante in cui si sentono ancora presenti le influenze di Haydn al romantico del compositore maturo e perfettamente identificato nello stile del suo tardo periodo. Dal suo canto, il Maestro Matteo Beltrami, dalla fucina del podio intende e riesce a forgiare una dinamica che incanta l’ascoltatore proiettando, metaforicamente, indimenticabili immagini di quei sentimenti che con grande probabilità furono dell’autore stesso. Ahimè, appuntamento disertato dal pubblico novarese che a stento è riuscito a riempire la platea del teatro, e a torto! Complice e galeotta la serata infrasettimanale, ma per i fortunati che hanno avuto l’ardire di presentarsi all’appello il premio è stato quello di partecipare ad una esecuzione di tutto rispetto. Prolungati e insistenti gli applausi alla ribalta, tali da esigere un bis puntualmente concesso, se pur con le strenuate forze di chi ha già dato tanto e nel migliore dei modi.

Roberto Cucchi

(foto Mario Finotti)

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“Quattro per quattro”: alle Serate Musicali in Sala “G. Verdi” un format originale che spiega le stagioni della vita. http://classica.iteatridellest.com/2019/01/28/quattro-per-quattro-alle-serate-musicali-in-sala-g-verdi-un-format-originale-che-spiega-le-stagioni-della-vita/ http://classica.iteatridellest.com/2019/01/28/quattro-per-quattro-alle-serate-musicali-in-sala-g-verdi-un-format-originale-che-spiega-le-stagioni-della-vita/#respond Sun, 27 Jan 2019 23:36:24 +0000 http://classica.iteatridellest.com/?p=341 Sala Verdi Conservatorio di Milano  ORCHESTRA ANTONIO VIVALDI DIRETTORE LORENZO PASSERINI Flauto e Ottavino SARAH RULLI Violino DINO DE PALMA Video designer LEANDRO SUMMO Scenografa VALENTINA SAVINO Installazioni NICOLA D’AGNELLI Programma R. DI MARINO  Quattro cartoline dall’Italia per flauto, ottavino e archi Roma – Amalfi – La leggenda di Maja – Paese in festa A. PIAZZOLLA  Primavera porteña    M. RICHTER     Estate             P. GLASS            Autumn       A. VIVALDI       

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Sala Verdi

Conservatorio di Milano 

ORCHESTRA ANTONIO VIVALDI

DIRETTORE LORENZO PASSERINI

Flauto e Ottavino SARAH RULLI
Violino DINO DE PALMA
Video designer LEANDRO SUMMO
Scenografa VALENTINA SAVINO
Installazioni NICOLA D’AGNELLI

Programma

R. DI MARINO 
Quattro cartoline dall’Italia per flauto, ottavino e archi Roma – Amalfi – La leggenda di Maja – Paese in festa
A. PIAZZOLLA 
Primavera porteña
   M. RICHTER    
Estate
            P. GLASS           
Autumn
      A. VIVALDI       
Inverno

di Antonio Cesare Smaldone


Quando leggiamo proposte di cartellone che prevedono l’esecuzione delle famigerate “Stagioni” la reazione istintiva può essere generalmente di due tipi: una mano in fronte per il disappunto suscitato da situazioni improvvisate, oppure l’interesse dato da esecuzioni che promettono una rispondenza filologica. Per ciò che concerne le “Stagioni” che abbiamo avuto interesse a seguire in Sala “G. Verdi” non ci siamo trovati né nel caso uno né nel caso due, avendo partecipato ad una opzione tre che rivela un progetto di più ampio respiro dalla connotazione interessante. Il filo conduttore dato, prevedeva: quattro stagioni, quattro compositori, quattro cartoline dall’Italia. La serata si è aperta con “Quattro cartoline dall’Italia” di Roberto Marino (compositore del 1956): “Roma”, “Amalfi”, “La leggenda di Maja” e “Paese in festa” sono dei piccoli quadri descrittivi molto ben organizzati, sia per successione che per costruzione, nei quali è dato al Flauto traverso e all’Ottavino (a seconda dei casi) il ruolo di “Voce recitante” che spieghi all’ascoltatore il disegno espressivo che rappresenta i vari luoghi/situazioni. In questo compito la flautista Sarah Rulli ha offerto una prova molto convincente, così come testimoniato da una calorosa accoglienza del pubblico e, altrettanto, dal bel ricordo lasciatoci. In questa prima composizione che costituisce il progetto “Quattro per quattro”, così come in quelle che seguono, la presenza di un solista non soltanto interagisce con la giovane e interessante Orchestra “Antonio Vivaldi” ma viene supportata e spiegata molto intensamente  dal gioco di proiezioni del Video Designer Leandro Summo sulle Scenografie di Valentina Savino. L’effetto è quello di un coinvolgimento spaziale completo, dal Palco alla Sala durante le esecuzioni e, per bilanciamento, dalla Sala al Palco al momento dei convinti applausi. La seconda tappa del progetto prevede, dopo le cartoline italiane, l’esplorazione delle quattro Stagioni attraverso quattro autori che, per Stile ed Epoca, rappresentano a loro volta delle stagioni della musica molto diverse tra loro.

da sinistra: Dino De Palma, Sarah Rulli, Lorenzo Passerini

Primavera porteña” di Astor Piazzolla, “Estate” di Max Richter, “Autumn” di Philip Glass, “Inverno” di Antonio Vivaldi. Se noti a tutti sono il primo e l’ultimo lavoro, meno lo sono quelli centrali: altro punto di interesse del progetto. In questa serie di Stagioni il violino solista di Dino De Palma svolge sia il ruolo descrittivo che gli è affidato dalla partitura attraverso un’esecuzione sicura e ricca di preziosi dettagli, sia quello di ispirazione per la scelta dei colori e delle inflessioni che la Direzione Musicale di Lorenzo Passerini va efficacemente ad infondere con chiaro coinvolgimento all’Orchestra “A. Vivaldi” sempre rispondente e con diverse punte di nota. Il susseguirsi delle Stagioni naturali assume il significato, grazie alla già citate proiezioni, di incedere armonico delle Stagioni della vita. Avvicinamenti, allontanamenti, sprazzi di luce e profondità delle ombre seguono perfettamente il gioco musicale molto ben operato da Passerini e De Palma così da trasporre il pubblico in una condizione di personale e complice riflessione. L’operazione parrebbe semplice ma, proprio per la natura degli argomenti musicali trattati, non lo è: il rischio di cadere nella banalità è molto alto in questi casi. Tutt’altro che banali sono i musicisti in scena, e, altrettanto stimolanti e ben giocate sono le rese “sceniche” nella loro composizione e successione. Una Serata Musicale che trova il consenso del pubblico e la felice impressione dei numerosi “addetti ai lavori” presenti. Una serie di cartoline e di Stagioni che hanno coinvolto e dato modo ad ognuno dei presenti di viversi in maniera personale il proprio percorso di vita. Bello!

Milano 21 gennaio 2019

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BOLOGNA: MICHELE MARIOTTI & ROBERTO COMINATI, Teatro Manzoni – 24 novembre 2018 http://classica.iteatridellest.com/2018/12/03/bologna-michele-mariotti-roberto-cominati-teatro-manzoni-24-novembre-2018/ http://classica.iteatridellest.com/2018/12/03/bologna-michele-mariotti-roberto-cominati-teatro-manzoni-24-novembre-2018/#respond Mon, 03 Dec 2018 18:52:43 +0000 http://classica.iteatridellest.com/?p=332 Un appuntamento all’insegna del tema dell’ostinato al Teatro Manzoni di Bologna, per la stagione sinfonica del Comunale, dal risultato decisamente positivo ed interessante. A cominciare dalla stessa meta-ostinazione del programma: in apertura la prima esecuzione assoluta di Ostinato per orchestra, di Luis de Pablo, su commissione della Regia Accademia Filarmonica. Opera di un nome che non ha certo bisogno di presentazioni, e che all’interno di una matrice dai tratti serialisti

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Un appuntamento all’insegna del tema dell’ostinato al Teatro Manzoni di Bologna, per la stagione sinfonica del Comunale, dal risultato decisamente positivo ed interessante. A cominciare dalla stessa meta-ostinazione del programma: in apertura la prima esecuzione assoluta di Ostinato per orchestra, di Luis de Pablo, su commissione della Regia Accademia Filarmonica. Opera di un nome che non ha certo bisogno di presentazioni, e che all’interno di una matrice dai tratti serialisti dipana con gusto da “generazione del ’51” ma con estrema razionalità e maturità timbrica il tema eponimo, riuscendo a nostro parere ad offrire impressioni estremamente interessanti nell’affrontare una delle sfide più ardue che affonda le radici nella storia stessa della musica occidentale: l’espressione variabile in un tempo lineare del tempo ciclico sottinteso dalla presenza di un eterno ritorno tematico. Il risultato, di poco meno di un quarto d’ora, è quasi una sequenza gregoriana contemporanea. Michele Mariotti sul podio dell’Orchestra del Teatro Comunale ha un controllo dinamico e timbrico magistrale. Di forse più agile ascolto, ma sicuramente non a prezzo della grandezza dell’opera, il secondo brano del programma, il celebre Concerto in Re maggiore “per la mano sinistra” di Maurice Ravel. La mano in questione – meravigliosa – è quella di Roberto Cominati, un nome che ci farebbe piacere leggere più spesso nei cartelloni italiani, viste le sue qualità, che francamente fatichiamo assai a trovare in pareggio in altri nomi connazionali della sua generazione. Ci pare che più di tutto sia rispettata e portata in massimo grado l’indicazione di Ravel secondo cui il concerto andrebbe eseguito come se fosse scritto per due mani; il che impone delle sfide esecutive estremamente notevoli, obbligando non soltanto a gestire le differenze dinamiche e di fraseggio tra suoni di pedale e canto con la sola mano solitamente pure svantaggiata, non soltanto a inserire questo lavoro tecnico frenetico in un’apparenza placida e cantabilissima, che anche nel più spedito allegro centrale pur con brillantezza smagliante non giunge mai ad eccessi frenetici, ma a farlo su un’estensione improba e sostanzialmente inedita nella letteratura pianistica fino a questo lavoro. Cominati è eccezionale in purezza di fraseggio e senso del canto, e sostanzialmente impeccabile sotto il profilo tecnico, trasmettendo la ferma sicurezza e facilità, cifra distintiva tanto del grande strumentista quanto del grande cantante, che è parte integrante di un’esecuzione dotata di gusto oltre che di senso e di precisione. Applaudito dal pubblico con convinzione quasi melomaniaca, al punto da concedere due bis (The man I love, Gershwin, e la Milonga del Angel di Piazzolla) del tutto esemplari. Mariotti lo accompagna con la precisione che gli è consueta e in aggiunta con uno studio evidentemente attento della timbrica, che in Ravel e nella sua scrittura orchestrale in un certo modo essenziale e michelangiolescamente ripulita di tutto il superfluo più che mai risulta dirimente. Tutta sua e della decennalmente “sua” Orchestra la seconda parte del concerto, con l’antologia orchestrale di due suites da Romeo e Giulietta di Prokof’ev. Qui Mariotti, che conosciamo ed ammiriamo particolarmente come direttore belcantistico e verdiano, dà brillante prova di sé in un repertorio solo apparentemente accessibile, in cui la dimensione di trascrizione non si limita alla resa di una musica per balletto in forma non scenica, ma acquisisce un carattere proprio, in cui sono concesse delle libertà agogiche che vengono sfruttate appieno, e che offrono una dimensione nuova a melodie tanto celebri quanto ricche di potenziale semantico inespresso quando slegate dalla dimensione di palcoscenico. L’Orchestra è estremamente efficace, l’ambiente del Manzoni, acusticamente eccezionale, è sfruttato con perfetto equilibrio restando sempre appena al di qua del limite del fragore nei fortissimi sferzanti. Particolarmente riusciti ci sembrano Montecchi e Capuleti e la morte di Tebaldo, in cui le tensioni ostinate sono chiaramente e fluidamente espresse sia nella gestione contrappuntistica della partitura che in una solenne e compiuta timbrica “nel modo russico”, per dirla con Musorgskij. Debito trionfo per Mariotti, che appena alle soglie della quarta decade si dimostra già un direttore di inconsueta maturità, in cui lo slancio quarantottesco è già sapientemente inquadrato in una coscienza di limite e di senso particolarmente profonda. Si sente in Verdi (un esempio tra tutti, già nell’ottimo Nabucco con Nucci del Festival Verdi 2008, facilmente reperibile su YouTube), e si sente ancora di più in questo repertorio. La performance si chiude purtroppo senza bis, ma con grandi acclamazioni anche per l’Orchestra, sempre all’altezza, e le sue impeccabili prime parti.

Paolo T. Fiume

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Novara, 16 gennaio 2018: CONTATTI: EUROPA ITALIA AMERICA. DA GOETHE A MENDELSSOHN, DA DVOŘÁK A VITTORINI E PAVESE http://classica.iteatridellest.com/2018/01/20/novara-16-gennaio-2018-contatti-europa-italia-america-da-goethe-a-mendelssohn-da-dvorak-a-vittorini-e-pavese/ http://classica.iteatridellest.com/2018/01/20/novara-16-gennaio-2018-contatti-europa-italia-america-da-goethe-a-mendelssohn-da-dvorak-a-vittorini-e-pavese/#respond Sat, 20 Jan 2018 18:01:15 +0000 http://classica.iteatridellest.com/?p=300 “…Possiamo riposare lo sguardo, socchiudere gli occhi, farci prendere dalle sensazioni: Luce, un vento caldo che porta autentici profumi mediterranei. Conosci tu il Paese dove fioriscono i limoni?…” Con questi versi affidati all’attrice Lucilla Tognoni, prende vita lo spettacolo proposto al Teatro Coccia di Novara lo scorso 16 Gennaio : “CONTATTI: EUROPA ITALIA AMERICA. DA GOETHE A MENDELSSOHN, DA DVOŘÁK A VITTORINI E PAVESE” Un viaggio caratterizzato dal desiderio di

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“…Possiamo riposare lo sguardo, socchiudere gli occhi, farci prendere dalle sensazioni: Luce, un
vento caldo che porta autentici profumi mediterranei.
Conosci tu il Paese dove fioriscono i limoni?…”
Con questi versi affidati all’attrice Lucilla Tognoni, prende vita lo spettacolo proposto al Teatro Coccia di Novara lo scorso 16 Gennaio : “CONTATTI: EUROPA ITALIA AMERICA. DA GOETHE A MENDELSSOHN, DA DVOŘÁK A VITTORINI E PAVESE”
Un viaggio caratterizzato dal desiderio di scoprire mondi nuovi, con lo sguardo meravigliato di Goethe tra L’ALTRO e l’ALTROVE, in cui F. Mendelssohn e A. Dvorak hanno trasferito in musica, quasi in un rapporto sinestetico, la Luce e l’entusiasmo, colti rispettivamente in Italia e in America.
Sul podio si sono alternati Matteo Beltrami e Manuela Ranno: un autentico gesto di generosità e sensibità da parte del direttore musicale del Teatro Coccia, il quale ha voluto affidare la prima parte del concerto proprio alla sua assistente appena diplomata in direzione d’orchestra.
Un debutto assolutamente promettente quello di Manuela Ranno, che ha saputo cogliere l’essenza della partitura, permeandola dell’italianità che la contraddistingue: con un gesto sempre chiaro ed efficace è riuscita a disegnare il messaggio autentico del compositore tedesco: ora vivace ed incisivo, ora elegante e raffinato… fino a giungere al temuto “saltarello” finale, risolto con grande maestria e agevolando gli ardui passaggi tecnici orchestrali.
Nella seconda parte del concerto, Matteo Beltrami conferma di essere un direttore di grande esperienza, con un pensiero musicale maturo e convincente: la scelta di tempi molto vivaci non ha sacrificato l’impasto orchestrale, bensì ha caratterizzato l’essenza entusiastica del Nuovo Mondo. Ne ha esaltato l’agogica, snellendo una scrittura non semplice ed immediata per le
sezioni orchestrali interessate.
Buona la resa generale dell’Orchestra Sinfonica Mantovana , che ha dimostrato grande capacità
di adattamento e un suono omogeneo ed uniforme per tutta la durata del concerto.
Un plauso anche all’attrice Lucilla Giagnoni che ha interpretato con grande intensità, le immanini poetiche dei testi di Goethe, Vittorini e Pavese.

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DUOMO DI ORVIETO: Zubin Mehta e la Nona sinfonia di Bruckner http://classica.iteatridellest.com/2017/04/21/duomo-di-orvieto-zubin-mehta-e-la-nona-sinfonia-di-bruckner/ http://classica.iteatridellest.com/2017/04/21/duomo-di-orvieto-zubin-mehta-e-la-nona-sinfonia-di-bruckner/#respond Fri, 21 Apr 2017 12:06:08 +0000 http://classica.iteatridellest.com/?p=179 Den Lieben Gott 11 aprile 2017, in quello che probabilmente è il più bell’esempio di architettura gotica: il Duomo di Orvieto, costruito nel 1290 come collocazione al Corporale del Miracolo di Bolsena. Qui 
i Cameristi del Maggio Musicale Fiorentino e il M° Zubin Mehta hanno proposto un omaggio a “Den Lieben Gott” : la nona sinfonia di Anton Bruckner. Non sarò a parlarvi di quanto già ampiamente riportato dall’informazione locale

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Den Lieben Gott

11 aprile 2017, in quello che probabilmente è il più bell’esempio di architettura gotica: il Duomo di Orvieto, costruito nel 1290 come collocazione al Corporale del Miracolo di Bolsena. Qui 
i Cameristi del Maggio Musicale Fiorentino e il M° Zubin Mehta hanno proposto un omaggio a “Den Lieben Gott” : la nona sinfonia di Anton Bruckner.

Non sarò a parlarvi di quanto già ampiamente riportato dall’informazione locale e nazionale, RAI 1 compresa, e di tutto quello che si può già trovare nella steppa infinita della rete riguardo il concerto. Vorrei invece dedicare questo spazio per parlare di Bruckner e della sua nona sinfonia.

Titolo mai scritto da Bruckner, ma soltanto pronunciato verbalmente con la promessa che l’avrebbe intitolata come nona sinfonia soltanto dopo aver portato a termine la partitura cosa che non si è avverata. Il numero 9, ha avuto un’impronta mistica (quasi terrorizzante) sui compositori, basti citare alcuni nomi: come  Beethoven con nove sinfonie, Schubert sempre nove, Dvorak che ha finito più o meno nello stesso periodo di Bruckner con questo mistico “nove”, poi Mahler…, e non mi crederete, ma ce ne furono anche altri!

L’incubo primario era più o meno questo: “dopo la nona muoio!”. Incubo che cresceva man mano che i compositori si avvicinavano al comporre la nona sinfonia, sino a divenire vero e proprio terrore di non riuscire a finire. Proprio questo capitò a Bruckner, nonostante iniziò a comporre la nona nel lontano 12 settembre 1887 a 63 anni e nel pieno delle forze, oramai famosissimo e riconosciuto come il successore dell’inclinazione “Wagneriana”.

 Va poi riconosciuto un fatto storico, quello dell’antagonismo. Motivo per cui si vanno formando schieramenti per l’uno o per l’altro. In quel periodo in Italia c’erano i sostenitori di Verdi e del suo antagonista Wagner, e così in Austria, i musicisti austriaci hanno creato i loro “antonimi” Wagneriani e Brahmsiani! Cosi è che i Wagneriani riconoscendo in Bruckner il successore del Grande Maestro  si scagliarono con tutte le forze contro  il povero Brahms.

 Per dire la verità gli stessi patriarchi non erano tanto lontani dalle tendenze dei rispettivi sostenitori, ignorandosi e disprezzandosi a vicenda. Basti raccontare una vicenda, diventata aneddoto, di quando Bruckner e Brahms si trovarono uno davanti all’altro ad una cena al ristorante “Zum Rothen Igel”.  Dopo una lunga e pesante pausa di silenzio piena di disprezzo, Brahms aprì il menu e disse con una voce forzata più o meno queste parole: “allora, vediamo cosa ci propongono: ah, würstel e brezzel!”, e Bruckner rispose: “Si, Herr Doktor, su questo argomento ci capiamo a vicenda”
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Arriviamo quindi alla personalità di Anton Bruckner.
 A dodici anni, dopo la morte del padre, fu affidato insieme con suo fratello alle cure di un monastero nel sud dell’Austria, al quale rimase legato spiritualmente per tutta la vita, mantenendo l’abitudine di riportare per iscritto quali preghiere e in che quantità le aveva recitato ogni giorno, in un preciso ordine che se scrupolosamente osservato avrebbe liberato la sua anima dai peccati. Credente sino a sfiorare il fanatismo, visse secondo i dogmi della chiesa. Incredibile, ma perseverò nella ricerca di una moglie fino a settant’anni osservando un preciso rituale secondo il quale un ragazzo e una ragazza, possibile fidanzata (rigorosamente 16-18enne), non potevano mai incontrarsi in una stanza da soli, ragion per cui si presentò sempre accompagnato da una donna di servizio. Inutile dire che se anche avesse vissuto in eterno sarebbe rimasto scapolo!

Si aggiunga che non appena sentiva il campanile annunciare la Santa Messa interrompeva immediatamente la lezione e costringeva i suoi allievi a partecipare ad una preghiera ad alta voce, intensa, quasi fanatica con una richiesta al Padre Eterno di dargli la possibilità di finire la 9 sinfonia. Nonostante ciò in nove anni non riuscì a finirla anche se scrisse le prime tre parti in circa tre anni, altri quattro anni non bastarono per la quarta. Cosciente del rischio di non riuscire a terminare ripeteva che nel caso si sarebbe potuto usare il suo Te Deum come finale, cosa che collimava perfettamente con la terza parte, l’ “addio alla vita”, ma non musicalmente (tonalità, scrittura etc.). Un finale che in effetti viene usato raramente.

Noi conosciamo 4 edizioni della sinfonia: la prima risale al 1903 di Ferdinand Loewe (uno dei due  responsabili per il testamento del Maestro secondo il quale tutto materiale musicale dopo la morte avrebbe dovuto andare alla biblioteca) non autorizzata. Poi ce ne sono altre tre: Orel (1932), Nowak (1951) correzione di Orel, Cohrs (2000) correzione degli errori di stampa dei due precedenti, ma nessuna delle quattro comprende la finale. E chi sa, considerando il fatto che tra gli appunti di Bruckner si trovava un’idea di unire in finale tutti i temi della sinfonia in verticale come una Torre di Babele, e sapendo come è finita la torre.., sarebbe stato meglio rimanere con la terza parte come finale, l’ “Addio alla Vita”, anche in virtù del fatidico numero 9.

Arriviamo a parlare dell’evento. Per quel che concerne L’Orchestra, posso soltanto confermare che è un ottimo strumento! Intensità e bellezza del suono degli archi, specialmente dei primi, ricordava a volte la vecchia Wiener, intensi ma non schiaccianti. I legni sono ottimi solisti, le cui capacità li colloca al mio riguardo, tra i migliori d’Italia. L’ensemble degli ottoni era a dovere e naturalmente un grande inchino ai corni con il loro “Si naturale” pulito, immobile, quasi fisico nella percezione come un cordone che ti lega con l’aldilà.

Il Maestro Zubin Mehta rimane sempre un Grande e con tutti gli attributi. Dirige tutto rigorosamente a memoria, avendo in testa non soltanto cosi detta la linea direttoriale, ma anche la parte maggiore della fattura orchestrale. Il suo gesto è preciso e semplice da interpretare. Oggi il Maestro Mehta rimane tra i pochissimi nel mondo a portare ancora l’arte della direzione con la testa alta!

L’acustica del Duomo è ottima per questo tipo di strumentazione, anche se bisogna riconoscere che nelle chiese Gotiche l’unico strumento che funzioni sempre perfettamente, mai troppo e mai poco, è l’organo, la scrittura della 9 sinfonia si adatta in modo esemplare alle caratteristiche dell’architettura del Duomo di Orvieto. Mai fastidiosa all’orecchio, mai sporcata da un riverbero eccessivo. Dalla quinta fila l’equilibrio tra il suono e la sala era perfetto. Purtroppo riascoltando la trasmissione del Venerdì Santo ho percepito qualche sterilizzazione della sonorità da parte dei tecnici della RAI. Peccato, perché bisogna sapere che il concerto è soprattutto “qualità del suono”, e viene regolato dal Direttore e auto regolato dall’Orchestra stessa. Il suono orchestrale è come l’insieme dei colori nell’impressionismo, a volte basta un filtro (la polvere per esempio) e si perde tanto.

Comunque sia, è un altro esempio di come per capire veramente a fondo l’esecuzione orchestrale bisogna essere presenti fisicamente in sala!

Esito: estremamente positivo!

Niko

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